Carlos Castaneda è stato uno dei grandi pensatori del ventesimo secolo. Era nato in Perù nel 1925 (secondo alcune fonti nel 1935) ed emigrato in California negli anni ’50, ha scritto 12 libri nei quali descrive il suo apprendistato presso uno sciamano Yaqui, Don Juan Matus, incontrato in una stazione per autobus in Arizona nel 1960.
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La storia del Gatto Max
Tratta dal suo quarto libro, “L’Isola del Tonal”, la storia dei due gatti destinati a essere soppressi da un veterinario è stata per me un grande insegnamento castanediano di consapevolezza dell’uomo di conoscenza e di umiltà del guerriero, oltre che uno straordinario strumento per capire i miei processi di identificazione con dei modelli di riferimento, che mi hanno spesso fatto pensare di essere un vincente, e andare incontro invece a sconfitte brucianti a causa della sopravvalutazione che ho fatto delle mie abilità.
La storia è quella in cui Carlos racconta a Don Juan di una sua amica, che aveva trovato due gattini abbandonati, li aveva curati e coccolati sino a farli diventare due enormi gatti, uno nero ed uno rossiccio.
L’amica però si doveva trasferire in un altro stato americano e non poteva portare con se i gatti. Non avendo trovato nessuno cui regalarli, li portò da un veterinario per sopprimerli.
Dal veterinario per essere soppressi
Carlos aiutò l’amica a far salire i gatti in automobile e gli animali, specialmente quello rossiccio, che si chiamava Max, erano molto agitati ed iniziarono a graffiare e mordere.
Arrivati dal veterinario, l’amica prese in braccio il gatto nero, che si calmò, iniziò a giocare con la zampetta e andarono tranquillamente dentro l’ambulatorio.
Max si cacciò sotto il sedile, Carlos si chinò per prenderlo e gli sguardi si incrociarono. Carlos senti una sensazione opprimente e sentì di dover spiegare al gatto che era una decisione della sua amica. Rimasero a guardarsi, l’uomo ed il gatto, poi Carlos aprì lo sportello e disse: “Corri, Max, corri!”
Il gatto saltò fuori e si lanciò in una corsa ventre a terra, “come un vero felino” racconta Carlos. Lo vide correre giù per la via, sino ad infilarsi in un tombino e continuare la fuga nelle fogne.
L’amica tornò. Carlos le disse semplicemente che Max era scappato e partirono in silenzio.
L’identificazione con Max
Castaneda racconta quindi a Don Juan che quell’evento divenne per lui il simbolo della vita di un gatto “vezzeggiato, castrato, troppo grasso, inutile”, che a un certo punto diventa un vero gatto.
Carlos continua spiegando che aveva raccontato più volte la storia agli amici, finendo per identificarsi lui stesso con Max, sentendosi troppo compiaciuto, addomesticato, ma avendo capito che il suo spirito di uomo un giorno avrebbe ripreso il sopravvento nel suo essere, così come lo “spirito gattesco” aveva riportato Max ad una “gattità” impeccabile.
Ricordo nitidamente la prima volta che lessi questo passaggio nell’Isola del Tonal. Era una sera di primavera del 1991. A questo punto pensai che fossimo arrivati alla conclusione, che l’insegnamento castanediano fosse dato dalla similitudine tra un gatto ed un uomo inutili, che a un certo punto della vita riprendono il controllo del proprio spirito e il loro istinto ancestrale, la ragione per cui sono in questo mondo, si impadronisce del loro essere e riporta al centro la loro vera natura.
Chiusi il libro e mi addormentai, felice del mio modo di pensare e dall’identificazione che, a mia volta, avevo fatto con il Gatto Max, esattamente come aveva fatto Carlos.
Sopportare il proprio Potere
Quando la sera dopo ripresi il libro, per continuare nella lettura, arrivò la mazzata. Don Juan al termine del racconto dice a Carlos che non credeva difficile far affluire lo spirito dell’uomo, cosi come era emerso lo spirito del gatto nella storia.
Ma sopportare questo spirito era cosa possibile solo per un guerriero. Carlos a questo punto è confuso.
Il Maestro continua dicendo che Carlos aveva creduto di poter cogliere un giorno la stessa opportunità del gatto, ma non aveva valutato fino in fondo tutte le possibili evoluzioni della storia. Non aveva messo in conto il fatto che la fuga del gatto possa essere stata inutile. Max poteva essere morto di fame o sbranato dai topi nella fogna.
Il guerriero valuta tutte queste possibilità e poi sceglie di credere.
Don Juan: Da guerriero, voi dovete credere che Max non solo è scappato, ma ha sopportato il suo potere. Voi dovete crederlo. Se non lo credete, non possedete nulla. (Carlos Castaneda, L’isola del Tonal)
Castaneda a questo punto è convinto di aver capito il senso di questa distinzione, e riferisce di avere scelto, allora, di credere che Max fosse sopravvissuto.
Ma don Juan tornò ad insistere sul punto della differenza, tra “credere”, che è una cosa facile, e “dover credere”. Carlos avrebbe dovuto utilizzare tutta la lezione che il Potere gli aveva mostrato in quell’episodio, e non soltanto una parte.
Dover credere
Castaneda continuava ad essere convinto di aver capito e di essere in uno stato di grande chiarezza mentale.
Ecco, quello che segue è uno dei brani più importanti del mio percorso castanediano.
Sono quelle situazioni in cui l’insegnamento di un Maestro provoca una sinapsi magica tra l’intuizione, la ragione, il vissuto dell’allievo che si consolidano insieme in un momento indimenticabile di crescita personale.
Le parole che seguono sono talmente scolpite nel mio percorso di vita, hanno talmente modificato il mio modo di pensare da “uomo comune”, lo hanno portato a essere un pilastro talmente importante della mia inflessibile volontà di diventare guerriero, che non riesco neppure a parafrasarle, come ho fatto sinora per la storia del Gatto Max, ma posso solo leggerle testualmente.
“Temo che continuiate a non capire”, disse don Juan, quasi in un sussurro. Mi fissò. Ressi il suo sguardo per un momento.
“E l’altro gatto?” chiese.
“Eh? L’altro gatto?” ripetei involontariamente. Me n’ero dimenticato. Il mio simbolo ruotava intorno a Max. Per me l’altro gatto non aveva importanza.
“Però c’è!” esclamò don Juan, come se io avessi espresso quel pensiero.
“Dover credere vuol dire che dovete considerare anche l’altro gatto. Quello che giocava e leccava le mani che lo portavano a morire. Quello era il gatto che andò alla sua morte fiducioso, soddisfatto del suo modo di giudicare, da gatto.
Voi pensate di essere come Max, quindi avete dimenticato l’altro gatto. Non ne ricordate neppure il nome. Dover credere vuol dire che dovete considerare ogni cosa, e prima di decidere che siete come Max dovete considerare che potete essere come l’altro gatto; che invece che correre per salvarvi la vita e cogliere anche voi la vostra occasione, può darsi che andiate tutto felice alla morte, soddisfatto del vostro modo di giudicare.”
E l’altro gatto?

Tutti presi dal nostro identificarci con il modello vincente, senza neppure aver capito sino in fondo se il “vincente” che vogliamo emulare abbia veramente vinto o perso, non consideriamo la possibilità di essere invece come il gatto inconsapevole che va incontro “alla sua morte fiducioso, soddisfatto del suo modo di giudicare, da gatto”.
Da quel giorno, in ogni situazione, in ogni progetto, in ogni scelta che faccio, mentre lavoro al livello più profondo del mio essere perché il mio vero “spirito umano” prenda un giorno il sopravvento esattamente come avvenne con la “gattità” di Max, metto sempre in conto anche la possibilità di essere “l’altro gatto”, perché la vita non mi colga di sorpresa, perché l’insuccesso non mi crei depressione emotiva, perché non debba aggrapparmi poi a categorie come fortuna o sfortuna per tenere sotto controllo il regolatore del nostro benessere psicologico, il più importante che abbiamo, che è l’autostima.
Valuto tutto, tutte le possibilità, e poi scelgo di credere, perché “devo credere” che ciò che faccio abbia un perché, devo credere che non dipenda dal successo o dall’insuccesso, che non dipenda dalla sfortuna o dalla fortuna, che non dipenda dalla benedizione o dalla maledizione.
Devo credere che sia solo una sfida.
Una sfida che a volte mi ha fatto vincere senza merito, così come altre volte mi ha fatto perdere senza colpa.
Ciao Vittorio,
questo aneddoto del gatto Max e l’altro gatto mi hanno mandato in tilt… perchè è troppo facile identificarsi in Max che scappa e “forse” vince!
Non sono sicuro di come posso interpretarlo nella vita di tutti i giorni.
Quando dici ““devo credere” che ciò che faccio abbia un perché”, lo leghi al tema dell’impeccabilità? Nel senso che se faccio le cose impeccabilmente non ha molta importanza se poi vanno bene o male?
Grazie e complimenti per i tuo blog
Michele
Ciao Michele,
si è esattamente come dici tu. Il “Dover Credere” di Castaneda è un concetto totalmente connesso al tema dell’impeccabilità.
Limitarsi a credere senza considerare tutte le possibilità non basta, perché con il credere “bigotto” non ci si assume la responsabilità degli atti che compiamo e poi ciò che succede lo etichettiamo come fortuna o sfortuna.
“Dover” credere significa che ogni atto sarà compiuto in modo impeccabile, perché è nell’impeccabilità di ogni gesto che l’Uomo di Conoscenza trova il senso della vita. Il risultato non conta. Conta solo ogni passo che farai su questa terra.
Un bellissimo passaggio del secondo libro di Castaneda spiega bene il concetto della non importanza del risultato delle azioni.
“Un Uomo di Conoscenza si affatica, suda, sbuffa e se lo si guarda è esattamente come un uomo normale, solo che la follia della sua vita è sotto controllo. Poiché non c’è nulla che sia più importante di qualcos’altro, un Guerriero decide le proprie azioni e le compie come se per lui avessero importanza. La sua follia controllata lo porta a dire che ciò che fa importa e lo fa agire come se importasse, pur sapendo che non è così; per questo, dopo aver agito, si ritira in pace e, che le sue azioni siano buone o cattive, più o meno efficaci, non è cosa che lo riguardi. Un Guerriero deve sapere prima di tutto che le sue azioni sono inutili e nonostante ciò deve procedere come se lo ignorasse.”
Grazie per i complimenti!
Spero di sentirti ancora
Vittorio
Dover Credere equivale alla fede. Se si ha fede si è aperti ad ogni cosa. Aver fede significa essere impeccabili. Anche questo post arriva con una precisone incredibile. Grazie!
Esatto Luca, Dover Credere è Fede, nel senso più profondo del termine.
E aver fede non è limitarsi a credere, e poi lasciare che le cose vadano per inerzia. Quello è inutile bigottismo.
Aver fede, in senso castanediano, cioè “dover credere”, corrisponde ad Assumersi la Responsabilità (altro mirabile capitolo di Viaggio a Ixtlan) e comportarsi conseguentemente in modo impeccabile.